Memoteca Pian del Bruscolo

Emma Parola, fotografa

Emma, ovvero l'arte della fotografia

L'Unità arrivava tramite i compagni “diffusori” che con la vendita del giornale a offerta tiravano su soldi per finanziare il partito. Il Resto del Carlino invece lo portava Emma di professione fotografa che per arrotondare le entrate vendeva anche i quotidiani, in copie contate che arrivavano con la corriera di Capponi da Pesaro.

Diversa da ogni altra Emma. La persona magra che pareva una scopa, alta nelle vesti lunghe alla caviglia, stretta in vita dal grembiule che portava d'abitudine. La faccina tonda e rugosa era sorretta da un collo che pareva una cannetta, sia pure con le grinze, i capelli tagliati alla maschietta.

Il suo odore, chiamiamolo così, aleggiava inconfondibile: pelo di gatto e tabacco. In casa aveva soriani ma anche un persiano, forse un siamese, sette, otto chi lo sa, di tutti i colori a giudicare dai peli che ravvivavano le sottane. Poi Emma fumava, per meglio dire ciccava, nel senso che fumava con ebbrezza fino all'ultima boccata. Era il suo vizio, non proprio femminile dati i tempi, neanche salutare, ma allora queste cose non si sapevano.

Come non bastasse era del tutto sorda, forse per questo aveva l'abitudine di girarsi ogni tanto mentre camminava come ad accertarsi se qualcuno la chiamava. Per capire quel che la gente diceva stava attenta a studiare il movimento delle labbra, così non abituata al suono della voce la sua aveva un timbro che coglieva impreparati, come ciò che esce dalla norma.

E ancora una bizzarria, la più stupefacente, la sua professione di fotografa. Le donne mandavano avanti la casa, tutt'al più servivano negli alimentari, oppure sarte, lavandaie ma un lavoro che richiedeva di muoversi, avvicinare gente, esigeva intraprendenza di maschio.

A sua scusante debbo dire che aveva il marito paralizzato in carrozzella doveva lei mandare avanti la famiglia, figli non ne aveva.

Tutte le fotografie di matrimoni, comunioni, cresime le ha scattate impavida, per i ritratti più di riguardo, quelli ricercati, con lo sfondo sfumato e fiori finti ad abbellire, si andava a Pesaro, ci volevano soldi però e quelli appunto mancavano. Così Emma aveva un bel da fare, per quelli di via Roma lo sfondo obbligato erano i giardini dietro il Comune con lo scorcio della pignatta, se invece servivano foto per i documenti un muro esposto al sole faceva al caso. Emma portava i suoi attrezzi, un treppiedi di legno con sopra la macchina, infilava la testa sotto un panno nero a mo' di fattucchiera, un braccio in alto e clic l'incantesimo era compiuto.

Volti, sorriso e chissà, un po' di anima, passavano dalla persona alla lastra scura che tirava fuori svelta per andarla a materializzare non so dove, non so come. Le foto venute meglio le mostrava appese a un paravento a fisarmonica nelle fiere dei paesi attorno ad attirar clienti.

La prima foto a colori di Emma che non voleva restare indietro coi tempi, fu chiara dimostrazione, forse dubbia nei risultati, di intraprendenza artistica poiché se la tecnica mancava lei aveva ovviato con l'ingegno, la foto in bianco e nero venne colorata manualmente uno striscio rosa sulla fronte, due pennellate sulle guance, macchie di giallo sopra i fiori. Adesso come adesso potrebbe creare sconcerto, ma furono per così dire prove tecniche di colorazione, come pure la sua vita si potrebbe definire prove tecniche di emancipazione.

Patrizia Geminiani

 

Sopra, a destra: immagine positiva ottenuta al computer da un negativo su carta; la fotografia è stata presa in via Roma: la signora che si affaccia in secondo piano è Emma, al suo fianco il marito Giuseppe Cavacciuti (1883-1965) (raccolta Anna Capponi Donati).

 

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