Memoteca Pian del Bruscolo

L'osteria di Edmondo Geminiani

Edmondo Geminiani (1906-1978), raccolta Famiglia Geminiani

Riportare il passato alla memoria aiuta ad entrare nella stanza segreta della mente per riscoprire altri ricordi e ritrovare i momenti che abbiamo dentro dimenticati. Persone e cose che non ci sono più tornano a vivere. Nuove, antiche emozioni riempiono il cuore. Queste pagine sono il ricordo di una bambina, lo spazio e il tempo della sua infanzia, una testimonianza che sia pure soggettiva e imperfetta vuole farvi riscoprire un mondo diverso, eppure era soltanto ieri.

 

L’osteria d’Edmondo detto Padèli

L'osteria era al centro del paese, in via Roma, proprio davanti al bar. Eh sì perchè lungo la via Roma, già via Borgo Mercato come scritto nelle fotografie antiche, si trovavano tutte le istituzioni che contano: la farmacia, le scuole (dove ora è la sede municipale), il Comune con la torre dell’orologio, l'ambulatorio medico, gli alimentari, la chiesa, l'ufficio delle Poste, l'asilo parrocchiale.

L'osteria gestita prima da mia nonna Rosina e poi dal figlio Edmondo, mio padre, era il ritrovo dei tanti anziani e non del paese, quando di distrazioni e soldi ne giravano davvero pochi, e l'unico svago era la partita a bigliardo, la gara di briscola e tressette, chi vinceva pagava la fojetta vale a dire mezzo litro di vino bianco o il vino corretto con la gazzosa che lo rendeva frizzante, lasciando nel palato fin dentro il naso un gradevole pizzicore che faceva tanto spumante.

Sto parlando degli anni Cinquanta quando giravano monetine piccole piccole con impresso un pesciolino sotto il numero cinque, quando zucchero, pasta, farina si compravano sfusi, incartati nella carta paglia, quando il pollo era sicuramente ruspante (peccato si potesse mangiare di rado, per via di quelle monetine che scarseggiavano), quando la televisione appena iniziava a meravigliare, sia pure in bianco e nero, disturbata di continuo da puntolini e strani borbottii. Una scatolona grande e grossa con le pareti di legno dove, finito lo spettacolo, si gettava uno sguardo dietro intimoriti se tante volte ci fossero nascosti presentatori e ballerine, magari rimpiccioliti, perché altrimenti come spiegare il diavolerio. A dire il vero non saprei spiegarlo neanche adesso, e nel frattempo le televisioni si sono fatte piatte come sogliole, niente scatolone per gli omini. Il mistero si è infittito!

 

 

Alle cinque della sera

L'osteria era uno stanzone rettangolare, diritto in fondo il bancone con i barattoli delle caramelle alla menta e le Rossana, i bracciatelli con i semi di anice in bella mostra, i boeri incartati di rosso e infilzati in un ferretto a formare una montagna golosa, le misure per il vino a degradare: quartino, mezzo litro, litro, in vetro chiaro da riempire con il rosso o con il bianco contenuto nei bottiglioni. Negli scaffali dietro i liquori che gli affezionati del “cicchetto” richiedevano già dal mattino con un cenno degli occhi: vermuth, marsala, Stock, il mistrà per “correggere” il caffé. Di fianco la ghiacciaia dove si infilavano le stecche di ghiaccio che Edmondo portava da Pesaro dove c'era la fabbrica, per tenere al fresco d'estate birra e vino. Solo più tardi arrivò la ghiacciaia che brinava da sola e si poterono vendere i gelati confezionati.

Al centro della stanza, di poco spostata sulla sinistra una stufa di ghisa, un cilindro annerito con uno sportellino per alimentarla di carbone. D'inverno i primi affezionati, quelli che si fermavano fino all'ora di cena per poi magari tornare, arrivavano che faceva notte.

Il freddo fuori si mescola al buio, non un'anima per via Roma. Entrano al calduccio stretti nelle giacche di fustagno, di velluto pesante, ai piedi scarpe con suola di gomma alta due dita, sopra stoffa spessa, tipo grosse pantofole. Siedono attorno alla stufa dove si cuociono le castagne dopo averle castrate, qualcuna salta via facendo sobbalzare le loro facce intorpidite che si avvicinano pericolosamente al fuoco calamitate dal tepore. Intorno fumo, odori d'inverno.

I tavoli dell'osteria di legno pesante avevano segni di bruciature di sigarette e macchie scure di vino, quattro sedie infilate intorno, il numero giusto per briscola e scopone.

La porta ogni tanto si apriva, una folata di vento ed ecco i volti di sempre che si incontravano, si scaldavano in quei lunghi inverni, quando freddo e miseria ce n'era per tutti, per non far torto a nessuno.

Patrizia Geminiani

 

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