Memoteca Pian del Bruscolo

Sant’Angelo in Lizzola. 4 Novembre 1860

Le schede per la votazione del 1861

in collaborazione con Archivio storico diocesano di Pesaro

4 novembre 1860. Nelle Marche si svolgono i plebisciti per l’annessione al Regno d’Italia. La Votazione del 1860 a Sant’Angelo in Lizzola, secondo i documenti dell’Archivio comunale trascritti da don Giovanni Gabucci

 

Verbale della votazione per l’Annessione alla Monarchia Costituzionale del Re Vittorio Emanuele

Sant’Angelo in Lizzola, 4 Novembre 1860. In nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele II.  Analogamente al rispettato Decreto di S. Eccellenza il Regio Commissario Straordinario in data 21 spirato Ottobre n. 97, osservate le prescrizioni tutte del citato Regio Decreto, fra le quali la pubblicazione della Lista Elettorale di cui è risultato un n. di 440 votanti [ma Gabucci annota tra parentesi: sono 442], sotto la Presidenza della Commissione Municipale, assistita dal proprio Segretario è stata oggi 4 Novembre alle ore 9 antimeridiane aperta in apposita sala del Palazzo Comunale di Sant’Angelo la publica adunanza, e dato principio alla  Votazione per l’annessione alla gloriosa Monarchia di Vittorio Emanuele II. Quindi il Sacerdote Don Francesco Canonico Felici ha data lettura al Proclama del Municipio ai suoi Concittadini in seguito di che hanno preso parte alla suddetta Votazione i seguenti Cittadini [114 su 442; segue elenco, che non riportiamo per ragioni di spazio]. Pervenute le ore 5 pomeridiane, e per conseguenza l’ora prescritta per la chiusura dell’Adunanza è stata a pubblica vista suggellata l’urna contenente i Voti, e quindi la Commissione Municipale ha dichiarata sciolta l’Adunanza medesima per riaprirla nel domani alla stessa ora, giusta il disposto del succitato Regio decreto e così sia.

In calce, Giovanni Gabucci annota: Manca il risultato della votazione; sopra il numero di 442 votanti dai quali detratti i minorenni votarono soltanto 163 persone (e non tutti certamente per il sì) e se ne astennero 279.

La votazione si concluse il 5 Novembre.

 

Proclama del Municipio

La votazione alla quale foste chiamati, non ha altro scopo che di unire anche le nostre Provincie, ed il nostro Paese col rimanente d’Italia libera. Il vostro voto dunque deciderà la sorte vostra. Quel che deporrete nell’urna faravvi sudditi di un Re Italiano, di un Padre amoroso che altro non brama, che il bene degli sventurati suoi figli, e quai figli sleali daremmo il voto contrario per non unirsi a tal Padre, che sin d’ora ci ha date non dubbie prove di sua magnanimità collo sgravio, e diminuzione di tanti pesi che troppo gravavano i nostri miseri Popoli! Accorrete adunque e senza indugio, né vi rattenga le perfide insinuazioni che alcuni maligni cercano sussurrarvi all’orecchio; questi altro non sono, che amici della oppressione, e nemici della Patria, che tentano pervertire il popol men colto, e con ben acconci raggiri trarlo in inganno, dando ad esso ad intendere, che mentre adempie il proprio dovere di buon cittadino incorre nella più grande scomunica. (...) Non curiamo dunque i perfidi suggerimenti, ma pronti accorriamo a deporre nell’urna il nostro Sì gridando Viva la Religione, Viva Vittorio Emanuele nostro Re, Viva l’Italia Unita. S.Angelo in Lizzola, 4 Novembre 1860, la Commissione: Raffaele Guidi, Raimondo Betti, Giuseppe Alessandri, Luigi Venturi,  Annibale Pascucci.

 

Il Canonico Felici, uno degli otto sacerdoti della Diocesi di Pesaro sospesi a divinis per il loro voto a favore dell’annessione, era Maestro di Scuola e dopo la sospensione ebbe dal Municipio un sussidio di circa 60 lire. Come rileva Gabucci, Don Felici si ravvide: quando morì a soli 43 anni, stroncato dalla tisi, le sue esequie, descritte nel X Libro dei Defunti della Collegiata, furono celebrate in forma solenne.

a cura di Cristina Ortolani

 

Pian del Bruscolo e il catasto dell’Italia unita. Un’avventura che dura da 150 anni

in collaborazione con Archivio di Stato di Pesaro

Il 17 marzo 1861 viene proclamato il Regno d’Italia. Molte le speranze, nutrite all’ombra del liberalismo ottocentesco che aveva animato le guerre di indipendenza:

- apertura delle frontiere tra gli ex-stati preunitari;

- organizzazione di un efficace sistema portuale e di moderni trasporti;

- attrattiva di capitali e iniziative dall’estero;

- possibilità di esportare prodotti competitivi (agricoli, seta grezza e filata).

L’elevato costo del carbone comportava un modesto sviluppo industriale, particolarmente evidente nel settore siderurgico e cantieristico. In cerca di energia a buon mercato gli insediamenti industriali sorgevano per lo più lungo le rive dei corsi d’acqua, luoghi di certo non paragonabili alle coeve strutture urbane europee, capaci di sostenere le esigenze, anche di servizi, dell’industrializzazione: le città italiane, lungi dall’essere centro di iniziativa e di attività economico-produttiva, avevano essenzialmente funzioni di dirigenza e di rappresentanza politica e finanziaria. Le industrie si concentravano essenzialmente nel settore agro-alimentare e tessile (limitatamente alle attività di prima lavorazione), con un modesto sviluppo del settore meccanico, trainato dalla costruzione della rete ferroviaria.

Appesantiva la vita del nuovo Stato la diversità e molteplicità nell’unità istituzionale appena costituita.

I decreti di Ricasoli attribuirono al Regno d’Italia carattere centralizzatore e i tratti essenziali furono delineati dal governo La Marmora tramite leggi delegate. Uno dei problemi che più assillava l’Italia era rappresentato dalla perequazione, tra i vari territori dello Stato, dell’imposta fondiaria, che rappresentava circa un quarto delle entrate. Dal punto di vista tributario il territorio nazionale era diviso in nove compartimenti: 1.Piemontese-Ligure; 2.Lombardo-Veneto; 3.Parmense; 4.Modenese; 5.Toscano; 6.Pontificio; 7.Napoletano; 8.Siciliano; 9.Sardo.

La disparità del gettito era causata dalla grandissima varietà (in ordine ai metodi di stima, all’epoca delle mappe, alla tipologia - particellare/per masse di proprietà o di coltura/geometrico o descrittivo) dei sistemi di catastazione, ben ventidue, degli Stati preunitari, che finivano per generare disparità dei sistemi di censimento e, quindi, di imposizione. Era comunque necessario distribuire tra i vari compartimenti il contingente di imposta ammontante a 110 milioni di lire dell’epoca.

Nel 1861 fu costituita la cosiddetta Commissione Giovanola, incaricata di individuare i metodi più idonei per ripartire in maniera equa l’imposta, essenzialmente tramite l’analisi dei catasti esistenti, la determinazione della rendita reale di ciascun compartimento in base ai contratti di affitto e vendita, nonché alla valutazione di stato delle colture, densità della popolazione e ricchezza generale delle province. È così che vide la luce la legge per il conguaglio provvisorio del 1864. Si trattava di una revisione ragionata dei contingenti compartimentali e si avvaleva anche dei catasti, ove esistenti, per la ripartizione del carico fiscale all’interno dei compartimenti, tra i Comuni e tra i singoli. L’intera materia necessitava comunque di un riesame approfondito e definitivo in vista della omogeneizzazione dei catasti.

Già nella legge per il conguaglio provvisorio del 1864 era istituita una imposta sui fabbricati distinta da quella sui terreni. È però la legge n. 2136, approvata il 26 gennaio 1865, che segna la nascita del Catasto Fabbricati del Regno d’Italia, organizzato per Comune (diviso per sezioni, se con popolazione superiore ai 60.000 abitanti). La documentazione prodotta era costituita da tavola censuaria (una sorta di inventario generale), registro delle partite e matricola dei possessori. L’attuazione della legge fu affidata alla Direzione Generale delle Tasse e del Demanio (in cui venne concentrata la conservazione dei catasti preunitari), mentre a livello periferico furono incaricate della tenuta degli atti le Agenzie.

Necessitava un organico ordinamento in relazione al mutamento rapido della situazione generale del Paese. Alla fine degli anni Settanta dell’800 l’agricoltura attraversava una fase di profonda depressione: il prezzo dei cereali sulle piazze internazionali si era enormemente ridotto, anche per l’emergenza di nuovi paesi produttori. Per di più mancavano capitali che potessero sostenere le trasformazioni tecniche, per l’attrattiva esercitata dalla speculazione finanziaria.

Il senatore Stefano Jacini, dal 1881 al 1886, fu presidente della commissione d’inchiesta sulle condizioni dell’agricoltura in Italia, e pubblicò nel 1884 un voluminoso rapporto, tutt’ora noto come Inchiesta Jacini: tra gli altri rilievi, si metteva in evidenza l’incidenza negativa dell’onerosità e farraginosità del sistema fiscale.

Urgeva l’istituzione di un catasto unico, geometrico-particellare, che fissasse nelle mappe tutto il territorio italiano, base del riconoscimento della rendita, con l’esatta conoscenza della situazione della proprietà, strumento per la perequazione, ma anche di orientamento per l’agricoltura.

Il progetto di legge del nuovo catasto terreni fu presentato alla Camera nel 1885 dal Magliani e prevedeva la perequazione generale tra i contribuenti fondiari, da attuarsi mediante il rilevamento di tutte le proprietà direttamente a cura dello Stato, per il tramite di periti incaricati dall’Amministrazione del Catasto, con la collaborazione di Comuni e Province. Le commissioni censuarie comunali furono particolarmente impegnate nelle operazioni di delimitazione delle proprietà.

La legge constava di 54 articoli e fu approvata nel 1886. La rendita fondiaria veniva determinata in base a qualità e classe e per unità di superficie. L’imposta era fissata al 7% della rendita. Atti del catasto furono: tavola censuaria, registro delle partite, matricola dei possessori, ma indubbiamente l’elemento di novità era rappresentato dalle mappe particellari. Di solito era adoperata la scala 1:2000, anche se per maggiori frazionamenti si utilizzavano le scale 1:1000 e 1:500.

Per cercare di contenere i costi fu ammessa la possibilità di continuare ad avvalersi delle mappe esistenti, se ancora utilizzabili. Le disponibilità previste ammontavano infatti a 60 milioni di lire dell’epoca, ma quando tutte le operazioni furono completate, nel 1956, 70 anni dopo, la spesa sostenuta complessivamente fu di 88 miliardi di lire (tenendo conto della valuta degli anni Cinquanta del ‘900). Il lavoro svolto fu notevole, proficuo ed interagì positivamente con il dibattito tecnico scientifico coevo.

La Commissione Censuaria Centrale, con le sue numerose e puntuali massime, venne definendo, delineando e precisando la portata delle leggi. Sul piano squisitamente speculativo si sostituirono gli approfondimenti metodologici - alla base della nascita e sviluppo della Scuola Italiana di Estimo - ai grandi dibattiti giuridici ottocenteschi.

Durante il periodo fascista il catasto italiano, primo al mondo, applicò il metodo aerofotogrammetrico alla rilevazione catastale. Nel 1931 venne pubblicato un testo unico delle leggi sul catasto terreni e due anni dopo l’ultimo regolamento attuativo che aggiornava il precedente, datato 1905. Le Direzioni Generali interessate erano due: quella delle imposte e quella del catasto.

È suggestivo ipotizzare, come aspirazione e prospettiva feconda delle penetranti e puntigliose operazioni catastali, l’idea di passare da procedure di supporto a interventi di mediazione e di riequilibrio da parte dello Stato e dei poteri locali nei confronti dei vecchi mali ereditati dagli arretrati Stati preunitari (latifondo/polverizzazione fondiaria/patti colonici).

A fine anni Trenta negli Uffici Tecnici Erariali venne concentrata tutta la procedura di conservazione del Nuovo Catasto Terreni, oltre a quanto rimaneva dei catasti precedenti. L’Agenzia delle Imposte deteneva solo una copia fedele degli atti aggiornati.

Nel 1939 si procedette anche alla revisione generale degli estimi dei terreni, nonché all’istituzione del Nuovo Catasto Edilizio Urbano. Necessitava infatti una perequazione per il cattivo uso fatto del vecchio catasto fabbricati ed il nuovo strumento si prestava a divenire mezzo di regolamentazione dei fitti, oltre che di conoscenza economico-giuridica per il controllo del settore immobiliare.

Tirando le somme di un dibattito che data dall’Unità d’Italia, a distanza di 150 anni si può dire che il catasto, nato come mero inventario di beni a fini fiscali, finisce per fornire uno stato significativo della realtà sociale ed economica del territorio.

Antonello de Berardinis Direttore dell’Archivio di Stato di Pesaro

 

1860 - 1871. Il Diario di Marco Damiani

Tra le memorie conservate con affetto da Bruno Olivi, appassionato di fotografia (la sua raccolta conta oltre seimila scatti) da molti anni residente a Morciola, c’è un libretto prezioso, che incuriosisce il lettore sin dalla prima occhiata al titolo: Sventura di un giovane per il tempo di undici anni. Pubblicato nel 2007 in un’edizione limitata, riservata a pochi amici, il libretto riproduce il Diario di Marco Damiani (1841 - 1924, bisnonno di Paola, moglie di Bruno), renitente alla leva del neonato Regno d’Italia, disertore nella III guerra d’indipendenza, soldato tra il 1868 e il 1870, fino al ritorno a Ca’ Ventura di Pietralata, oggi frazione di Acqualagna, zona dove tuttora vivono alcuni suoi discendenti.

Un racconto prezioso perché scritto da un contadino in un’epoca nella quale i contadini erano perlopiù analfabeti, e che ci offre dunque uno sguardo raramente documentato sugli eventi di quegli anni: Del 1859, il giorno 8 Settembre, venne atterrata detta bandiera [la bandiera pontificia] e fù inalzata questa bandiera itagliana col nome di V.E. [Vittorio Emanuele]. Il detto giovane aveva lettà di 18 anni circa. Quanto giunse a letta di 20 anni, fu iscritto nella lista di leva come tanti altri.

Siccome lo saprai che nel suo paese, sotto il governo ponteficio, non usava mai leva, li pareva piuttosto forte di dover partire soldato. Ma invece fu la sua rovina. Lui si dispone renitente: durò quella vita circa 3 anni.

Come nota Sergio Pretelli nella postfazione al Diario di Marco Damiani, in quegli anni la provincia di Pesaro e Urbino acquista una sua peculiarità, perché presenta il più alto numero di renitenti alla leva, ma anche il più alto numero di volontari nell’esercito italiano. Volontari probabilmente indotti a entrare nell’esercito dalla ricerca di vitto sicuro, alloggio decente, panni non laceri.  A differenza di questi diseredati, Damiani può però contare su una famiglia che quotidianamente si inoltra nell’ombrigiosa selva dei boschi del Furlo per assicurargli il cibo necessario, mentre il ragazzo matura nei due anni di latitanza la decisione di partire per Roma, dove spera di trovare un rifugio che gli consenta di evitare l’arresto.  A Roma arriverà attraverso l’Umbria (troppo pericolosa la frequentata via Flaminia): in cotesta città vi dimorò lo spazio di dieci mesi circa, dall’agosto 1863 all’aprile 1864; ancora latitante nella primavera del 1864, il 10 luglio Marco Damiani verrà arrestato nei pressi di Ca’ Ventura per un omicidio non commesso. Dimostratosi innocente, il giorno del S. Natale del 1864 è liberato, ma lo aspetta il processo per renitenza alla leva, dopo il quale, il 25 Aprile del 1865 viene destinato soldato di linea nel 61° Reggimento, e quindi parte di Ancona e prende la volta di Regio Emiglia... traversando le Romagne, il Ducato di Modena, e quindi giugnì al destino. (…) Dunque lui è soldato, ma lo fa con malo cuore, non si fa capace del melitar servezio; ma però, apoco apoco, comincia di fare amicizia con laltri compagni e così tirava avanti. Il 20 Giugno 1866 l’Italia presenta la dichiarazione di guerra all’Austria per motivo del tereno venit [veneto], giache stava sotto la bandiera ustriaca, come è di giusto che apartiene alla bandiera itagliana. Marco, che aveva sempre visuto nella gnorantità, presta fede alla diceria che litaglia dovessi perdere, e con altri suoi compagni risolvè di disertare. Tra il 1866 e il 1867 Marco vive in Tirolo e in Svizzera, con i compagni Giuseppe Chiatti e Pietro Grilli; in Svizzera, nei pressi di Lucerna, trovano lavoro da uno impresario itagliano, imparando un poco anche la lingua tedesca. Il giorno 19 Ottobre del 1867 si comprò un vestito imodo che poteva comparire ovunque; le notizie della famiglia si mantenevano con delle lettere; grazia il cielo la buona salute non li mancava e così stava pacifico. Dietro insistenza del Chiatti, Damiani intraprende il 27 Dicembre il viaggio verso casa (insomma, fece tanto e poi tanto che lo fece persuaso di fare ritorno); dopo una settimana i due arrivano finalmente a Pesaro, e raggiungono Torre San Tommaso, frazione di Urbino dove abitavano Maria e Filomena, le sorelle sposate di Marco: la neve era asai grosa, ma tutti due giovanotti, con bravi stivali ai piedi, caminarono lo stesso. Chiatti riparte dopo due giorni, Marco, ancora disertore, siede ritirato tutto linverno senza farsi vedere da nessuno altrochè dai prossimi parenti; il 22 Aprile 1868, in occasione delle nozze tra il principe Umberto I, figlio di Vittorio Emanuele, e la cugina Margherita di Savoia, il re concede un’amnistia ai disertori, renitenti e rafrettari, della quale gode anche Damiani. Rientrato nell’esercito nel Luglio dello stesso anno, fa il servizio come laltri soldati. Il racconto dei due anni di leva è denso di episodi drammatici, come l’esecuzione sul campo di un caporale per ribellione o le privazioni e gli stenti vissuti durante la marcia che porta il 61° Reggimento dal basso Lazio a Roma, dove il 20 Settembre del 1870 prende parte, pur senza fare fuoco, alla battaglia di Porta Pia. Stava pronto alocorenza ma non vi fu bisogno; si ritirò dentro la Villa Corcana. Del detto Regimento ne morì un soldato e sette feriti. La più scossa lebbe il 19° e il 35° Fanteria: i due Reggimenti ne lasciarono morti sul tereno una terza parte e anche di più. Pure i Bersaglieri e Artiglieria ne morì al sufficiente, benché i papalini erano asai meno dell’esercito italiano, ma sicome loro erano dentro le mura, poco ne periva. (…) Siche dopo 5 ore 50 minuti di combattimento le mura, la maggior parte, furono per terra e cosi ai papalini li convenne arrendersi. Lentrata fu a Porta Pia… O’ lettore, non puoi comprendere le bandiere che spiegarono i Romani! Dopo un periodo trascorso nella capitale, della quale Damiani descrive con meraviglia tutta ‘provinciale’ le tante bellezze (Di più vorei scrivere, ma il mio studio è poco e cosi la scienza non mi aiuta di scriverne tutto ciò che ho’ veduto), il terzo Battaglione del 61°Reggimento è destinato a Lonato, in Lombardia:  nell’Ottobre 1871 la classe 46 cominciò il disarmo è fra i quali fu compreso anche il povero sventurato Damiani Marco. Lui ringraziò il cielo di averlo conservato in buona salute, riflettendo fra lui istesso, giachè per lo spazio di undici anni circa che non può godere la pace in famiglia. Siche il giorno 5 fù disarmato ed il 17 riprese la volta della casa nativa: il suo sangue ballava nelle vene, giachè unora li pareva mille, di rivedere i suoi genitori.

Dopo il suo ritorno, scrive Roberto Fiorani nella prefazione al Diario, Marco Damiani condusse la sua vita di contadino in maniera del tutto analoga a quella dei suoi vicini, dai quali fu soprannominato Marco bravo. (…). Morì in casa sua nel 1924. Le pochissime persone che ricordano di averlo conosciuto, lo descrivono come un anziano signore, dritto e asciutto, che portava gli orecchini (due piccoli cerchi, uno per lobo) e che, nei giorni di festa, si notava vicino all’altare a servire la messa.

a cura di Cristina Ortolani

 

 
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